I segnali per capire che con Facebook le cose non sarebbero andate per il verso giusto c’erano già da tempo. L’episodio risale al 2004 (ma è diventato noto solo sei anni più tardi): Facebook era appena stato lanciato e Mark Zuckerberg, dalla sua stanza di Harvard, si vantava via chat con un amico di aver già ottenuto oltre 4mila tra email, immagini, indirizzi fisici e altro.
Quando l’amico gli chiede come sia riuscito a farsi dare tutte queste informazioni, il 19enne Zuckerberg risponde: “Si fidano di me. Stupidi coglioni” (“They trust me. Dumb fucks”). Non esattamente un segnale incoraggiante da parte della persona che, nel corso dei successivi vent’anni, avrebbe costruito un impero dal valore di mercato di mille miliardi di dollari, e una fortuna personale pari a 130 miliardi, gestendo le informazioni private di 3,9 miliardi di persone (unendo Facebook, Instagram e Whatsapp, le piattaforme sotto il cappello di Meta).
A due decenni esatti dal lancio di Facebook – avvenuto il 4 febbraio 2004 – possiamo dirlo: non avremmo dovuto fidarci. La storia del social network fondato da Mark Zuckerberg è infatti costellata di scandali, controversie, invasioni della privacy, disinformazione, inquietanti esperimenti di ingegneria sociale e addirittura violenza alimentata tramite quella che era nata come una innocua piattaforma per aiutare amici e parenti a restare in contatto.
È impossibile ripercorrere ogni singolo scandalo che ha coinvolto Facebook in tutti questi anni. Per celebrare – se così si può dire – il ventennale del più importante social network della storia, abbiamo allora deciso di selezionarne cinque, presentati dal meno al più grave (per semplicità, abbiamo inoltre escluso le tantissime violazioni della privacy perpetrate da Facebook e gli altrettanto numerosi furti di dati subiti).
I 5 scandali:
- Ingegneria sociale ai danni degli utenti
- Instagram nuoce alla salute e Facebook lo sa benissimo
- Cambridge Analytica
- L’assalto a Capitol Hill nasce (anche) su Facebook
- Myanmar: Facebook è usato per diffondere la violenza
Ingegneria sociale ai danni degli utenti
Nel corso del 2012 Facebook decide di eseguire un esperimento a insaputa delle persone coinvolte. L’esperimento prevede di nascondere dai newsfeed di 689.003 utenti tutti i post negativi o tutti i post positivi, per studiare poi come ciò avrebbe a sua volta alterato i contenuti da loro pubblicati o come avrebbe modificato il loro utilizzo del tasto “like”. I ricercatori che si occupano di questo esperimento scoprono che “quando vengono ridotte le espressioni positive, le persone producono meno post positivi e più post negativi. Quando vengono ridotte invece le espressioni negative, avviene il contrario”.
Niente di particolarmente sorprendente. Ciò che invece sorprende e suscita grande scandalo è scoprire che Facebook è in grado di manipolare le nostre emozioni attraverso un paio di ritocchi all’algoritmo e che, soprattutto, è disposto a farlo per i suoi scopi privati, senza nemmeno avvisarci.
Quanto avvenuto nel 2012 – ma scoperto solo nel 2014, in seguito alla pubblicazione dei risultati dello studio – è forse il primo grave segnale di allarme relativo all’enorme poter che i social network possono esercitare su di noi, arrivando addirittura a manipolare le nostre emozioni (e magari, si può sospettare, sfruttando tutto ciò a livello commerciale).
Instagram nuoce alla salute e Facebook lo sa benissimo
Nel 2021 l’ex dipendente Frances Haugen fa emergere un gigantesca mole di rivelazioni sulla condotta di Facebook. I documenti diventati noti come Facebook Papers certificano una volta per tutte quanto il social network – tra le altre cose – non sia in grado di fermare la disinformazione e la propaganda più incendiaria e, anzi, in alcuni casi abbia avvantaggiato di proposito i contenuti più divisi e pericolosi, proprio perché consapevole di come questi aumentino l’interazione degli utenti sul breve periodo.
Tra le tante rivelazioni contenute all’interno dei Papers, a fare scalpore è però soprattutto lo studio che ha indagato il modo in cui Instagram incide sul benessere mentale dei giovanissimi. Uno studio mai divulgato da Facebook (che l’ha però realizzato) e dal quale emerge come un adolescente su tre (sia maschio sia femmina) dichiari di avere un rapporto problematico col social network. Il 32% delle ragazze afferma inoltre che Instagram peggiora il rapporto col proprio corpo (contro un 22% secondo cui contribuisce invece a migliorarlo). Più in generale, si legge sempre nello studio, “gli adolescenti che non sono soddisfatti delle loro vite affermano di essere negativamente influenzati dalla piattaforma”.
Il sospetto, quindi, è che Instagram possa provocare depressione e senso di inadeguatezza. O almeno peggiorare la condizione di chi già è depresso, si sente inadeguato o viene sottoposto al costante confronto con coetanei dalle vite (apparentemente) migliori e dalle metriche social più vistose. Questi effetti collaterali, prevedibilmente, non riguardano soltanto gli adolescenti: lo dimostra la maggiore propensione degli adulti che usano Instagram a sottoporsi a chirurgia estetica rispetto a coloro i quali invece non lo utilizzano.
A destare clamore è però anche il comportamento di Facebook, che conduce uno studio che rafforza i sospetti sugli effetti nocivi dei social, ma decide di non renderlo pubblico e apparentemente di non fare nulla per provare almeno a mitigare gli effetti. E questo nonostante nello studio gli stessi ricercatori scrivano: “Gli adolescenti accusano Instagram di far aumentare la loro ansia e depressione. Questa reazione è costante in tutti i gruppi investigati”.
Cambridge Analytica
È sicuramente lo scandalo più famoso che abbia colpito Facebook. Quello che – assieme alla contemporanea ondata di fake news, teorie del complotto e disinformazione organizzata – ha una volta per tutte sepolto la vecchia idea dei social network come strumenti intrinsecamente favorevoli alla libera informazione e alla democrazia (come per lungo tempo, e soprattutto in seguito alle Primavere arabe del 2012, si era pensato).
Lo scandalo Cambridge Analytica del 2016 è molto complesso e sfaccettato. In sintesi estrema le cose sono andate così. Nel 2013 il ricercatore universitario Aleksandr Kogan pubblica su Facebook un quiz chiamato This is Your Digital Life. Promosso come un test per la personalità, questa app raccoglie in realtà informazioni personali di ogni tipo dalle persone che lo utilizzano e dagli amici di queste persone, che ovviamente non hanno dato consenso a nessuna operazione di questo tipo.
Peggio ancora, i dati relativi a circa cento milioni di persone vengono poi acquistati (illegalmente, perché le norme di Facebook lo impediscono) dalla società di consulenza politica e analisi dei dati Cambridge Analytica, cofondata nel 2013 da Steve Bannon, che nel 2016 diventerà noto in quanto consigliere politico dell'ex presidente degli Stati Uniti Donald Trump e guru dell’estrema destra mondiale.
I dati ottenuti da Kogan vengono impiegati per costruire un programma in grado di targettizzare con enorme precisione le inserzioni politiche (spesso basate su fake news, diffamazione degli avversari, immagini contraffatte e altro ancora), selezionando quelle che hanno la maggior possibilità di avere impatto su specifici gruppi elettorali, cercando così di influenzarne le preferenze politiche in favore di Donald Trump (e anche della Brexit).
È impossibile sapere quanto questa operazione – comunque nata grazie a dati ottenuti illecitamente – abbia effettivamente condizionato le elezioni statunitensi o il referendum sulla Brexit. Così com’è impossibile conoscere l’impatto avuto nello stesso anno dalle fabbriche di fake news al soldo del Cremlino (tra cui la famigerata Internet Research Agency di San Pietroburgo), che Facebook non cerca inizialmente nemmeno di arginare. È invece certo che lo scandalo Cambridge Analytica (a causa del quale Facebook ha ricevuto una multa da cinque miliardi di dollari) ha una volta per tutte rivelato come i social network (e i nostri dati) possano essere usati addirittura per cercare di compromettere i processi democratici.
L’assalto a Capitol Hill nasce (anche) su Facebook
Anche in questo caso c’è di mezzo Donald Trump e l’incapacità di Facebook – e di tutte le altre piattaforme social – di tenere a bada la circolazione di fake news e teorie del complotto. Tutto nasce con la diffusione di QAnon, il movimento complottista che considera Trump una sorta di messia: un combattente per la libertà in lotta contro i circoli corrotti e perversi che governano Washington.
A partire dal 2017, questa teoria del complotto si diffonde prima su 4chan e poi su tutte le altre piattaforme, assumendo tratti sempre più violenti e venendo abbracciata in toto anche dall’estrema destra statunitense e da un numero sempre crescente di politici repubblicani. Nonostante il cambio di approccio nei confronti della disinformazione in seguito agli scandali del 2016, Facebook, Twitter, YouTube e gli altri faticano a tenere a bada le fake news legate a QAnon. Nel frattempo, si avvicinano le elezioni presidenziali statunitensi del 2020, che contrappongono Trump a Biden.
Dopo la vittoria di Biden e le false accuse di Trump, che considera le elezioni truccate a favore del suo avversario, sui social network inizia a sorgere il movimento Stop the Steal (Fermiamo il furto). Il tutto culmina il 6 gennaio, quando i sostenitori di Trump e di QAnon, incitati di persona dallo stesso magnate, assaltano il Campidoglio a Washington.
Un assalto organizzato online anche, se non soprattutto, su Facebook. A dimostrarlo è la non profit Tech Transparency Project, che individua una serie di pagine Facebook che fanno esplicitamente riferimento al 6 gennaio come al giorno in cui passare all’azione. Nonostante Facebook abbia rimosso parecchie pagine violente legate a QAnon, all’estrema destra e al movimento Stop the Steal, molte altre hanno invece continuato a incitare alla rivolta e a venire utilizzate per organizzare l’assalto. Stando inoltre ai documenti interni visionati dalla Cnn, Facebook si è dimostrata altamente impreparata ad affrontare la situazione, iniziando ad agire con maggiore decisione soltanto quando la rivolta ha assunto tratti violenti e quasi golpisti.
Myanmar: Facebook è usato per diffondere la violenza
Attorno al 2018 si inizia a parlare anche in Occidente di una crisi umanitaria in corso in Myanmar da parecchi anni. È una crisi che ha come protagonista la minoranza musulmana dei Rohingya, oggetto di persecuzioni e violenze tali da causare la fuga dal paese di almeno 700mila persone e la morte di migliaia. Una situazione talmente grave che le Nazioni Unite hanno definito la violenza perpetrata ai danni dei Rohingya “genocida”.
Che cosa c’entra Facebook in tutto questo? In una nazione in cui ancora nel 2012 meno dell’uno per cento della popolazione ha accesso a internet, l’improvvisa diffusione della rete e contestualmente di Facebook porta immediatamente a una circolazione incontrollata di fake news, che spesso accusano i Rohingya di orribili violenze e che vengono diffuse appositamente per incendiare gli animi contro di essi.
Come ha scritto il New Yorker, “gli estremisti buddisti che puntano a infiammare le tensioni etniche con la minoranza Rohingya hanno perfezionato l’arte della disinformazione. Wirathu, un monaco con un ampio seguito su Facebook, ha scatenato una rivolta mortale contro i musulmani nel 2014, quando condivise una falsa notizia riguardante uno stupro, avvertendo i suoi seguaci che era stata scatenata la jihad contro di loro”.
Da allora, circolano più di mille post che hanno il solo scopo di scatenare vere e proprie cacce all’uomo. Una situazione simile si è verificata anche in India, dove le bufale diffuse su WhatsApp nel 2018 e riguardanti i rapimenti di bambini da parte di presunte gang sono state la miccia che ha provocato un’ondata di violenze tale da causare la morte di almeno 25 persone. In Sri Lanka, voci non controllate circolanti sempre su WhatsApp avevano nello stesso periodo scatenato violenze tra buddisti e musulmani, portando un consigliere del presidente ad affermare: “I germi di questa violenza sono nostri, ma Facebook è il vento che li diffonde”.